MACRO, Gea Casolaro, Con lo sguardo dell’altro, fino all’ 11 giugno
di Giorgia Terrinoni
Ho avuto voglia di guardare di nuovo per intero i due video che narrano dell’incontro tra l’artista, le detenute e i detenuti del carcere romano di Rebibbia.
In quest’occasione, Gea Casolaro ha lavorato separatamente con le donne (Fuori di qui - Rebibbia femminile, 2005) e con gli uomini (Fuori di qui - Rebibbia maschile, 2006). Ciascun gruppo, attraverso testi, disegni e fotografie, ha generato delle possibili rappresentazioni del fuori.
Alcuni incontri hanno avuto luogo in un cortile del carcere, che ha funzionato come un duplicato illusorio del fuori. Uno spazio, in ogni caso, significativo; per alcuni detenuti uno spazio fondamentale, in grado di avvicinarli al fuori reale. Il cortile evoca infatti la cosiddetta ora d’aria, è luogo d’incontro con i familiari e con tutti coloro che fuori ci stanno veramente. Per altri, invece, è un luogo intollerabile, poiché totalmente illusorio, e che amplifica in modo assordante la condizione di reclusione.
La separazione di genere che caratterizza comunemente l’organizzazione detentiva evidenzia la diversità dei pensieri e dei bisogni che appartengono alla dimensione femminile e maschile. Non intendo generalizzare, ma nel vissuto femminile emerge frequentemente la mancanza, percepita quasi come un’amputazione, dei figli. In quello maschile ricorrono la paura e la colpa. La paura di perdita della famiglia, non solo dei figli ma anche della donna; la paura nei confronti di un mondo poco incline a reintegrare chi ha commesso uno sbaglio, grande o piccolo che sia; la paura – una paura che si fa terrore – che agli anni della detenzione non si possa sopravvivere. Poi c’è la colpa e la necessità di elaborarla, di conviverci. L’elaborazione della colpa è ciò che probabilmente consente ad alcuni detenuti di sopravvivere, ad altri no.
In entrambi i video – che possiamo anche vedere come una sola opera in due atti – colpisce immediatamente la complessità di visione espressa dagli individui.
Il punto di vista soggettivo si fa, con il procedere degli incontri, collettivo. Aiutato dall’artista, che è dentro ma anche e soprattutto fuori, il singolo si ripensa negli altri. Non abdica a se stesso, ma si dispone a comprendere anche attraverso gli altri. Ne viene fuori un racconto corale, dove le voci si appoggiano le une sulle altre, senza sovrapporsi. La collettività creata in modo coatto dalla dimensione detentiva – a scapito della diversità dei singoli – si trasforma in un invito a completarsi per meglio comprendere la realtà.
Lo sguardo dell’altro è un tema molto caro all’artista e fa da leitmotiv anche alla mostra del MACRO. Le sue declinazioni sono numerose, ma passano tutte attraverso la fotografia e il video – due media capaci di restituire non solo prodotti artistici, ma anche e soprattutto procedure. Tutte poi passano attraverso un ripensamento del punto del vista.
In South (2008), una serie di bellissime fotografie di paesaggi neozelandesi viene esposta sottosopra. L’artista invita lo spettatore a rimettere in discussione la percezione del paesaggio. E la nostra posizione rispetto al paesaggio. Non è un caso che si tratti di paesaggi sì da cartolina, ma anche di paesaggi del Sud del mondo. Guardando le immagini, un mutamento sembra divenire possibile. E se, all’inizio, pare solo che il sotto sia diventato il sopra, dopo un poco emerge un mondo di mezzo in cui il sotto e il sopra confluiscono. Letteralmente e metaforicamente.
Il progetto Sharing Gazes (Sguardi condivisi, 2013-17) salda le pratiche messe in atto da Gea Casolaro nei lavori precedenti. Qui, la necessità di un ripensamento della nostra percezione della realtà, anche e soprattutto di quella geopolitica, abbraccia la riflessione sulla pluralità del punto di vista. Insieme, tracciano una possibile via per la costruzione di un futuro comune a Nord e Sud del mondo, a Europa e Africa.
Nel 2013 l’artista è stata invitata dall’Istituto Italiano di Cultura di Addis Abeba a realizzare un progetto sulla capitale etiope. Ha scelto di lavorare con un gruppo di studenti della locale School of Fine Arts. Ciascun membro del gruppo ha selezionato un luogo della città ritenuto significativo. Tutti insieme poi hanno fotografato ogni singolo luogo, ma scambiandosi continuamente le macchine fotografiche in modo che da rendere impossibile determinare l’autorialità dello scatto.
Il risultato è una serie d’immagini in grado di restituire una visione composita di ogni singola zona della città. La stessa scena risulta fotografata da più punti di vista ed è possibile vedere contemporaneamente immagini complementari dello stesso luogo nello stesso momento, moltiplicando così anche la possibilità di visione dello spettatore.
Quella di Gea Casolaro è un’arte relazionale, nei termini in cui annulla non solo le barriere tra artista e spettatore, ma anche tra artista e progetto. Nel senso che, se l’artista può coincidere con l’ideazione del progetto, non coincide del tutto con la sua realizzazione. Questa, infatti, è il risultato di un intersecarsi di voci differenti. Una polifonia. È un’arte interculturale, multimediale, politicamente ed eticamente molto connotata.
Ma è anche un’arte che si sostanzia dell’arte. Afferma l’artista: “L’arte è per me sempre il punto di partenza. L’apertura mentale a cui predispone l’arte, le arti in generale, è indispensabile (…). Ma all’arte bisogna essere educati: allenati a guardare in profondità, vedere al di qua di quello che appare a una prima lettura. È questa l’idea che sempre mi guida”.
In mostra ci sono, infatti, dei lavori che rendono omaggio all’arte, come una foto della serie On the time line (2011-17), un autoritratto in cui l’artista appare di spalle, nella stessa posizione assunta dalle figure dipinte nel quadro che sta osservando. Il quadro è La reproduction interdite di René Magritte, un artista al quale Gea Casolaro deve molto, soprattutto per l’invito costantemente presente nelle sue opere ad andare oltre la rappresentazione per immergersi in una riflessione più ampia sull’immagine e la percezione della realtà.
O ancora Ricordando Rousseau (2000), trittico della serie Ricordando… (1997-2000), in cui l’artista mostra come la profondità dello sguardo - una profondità fatta di tempo, che poi è memoria - possa intrecciarsi con la banalità dell’esperienza quotidiana. A saper guardare in profondità, ci si può ritrovare all’interno di un’opera d’arte anche mentre si compiono azioni abituali apparentemente prive d’importanza.
L’interccio di arte e vita si fa quasi una fusione in Still here (2009-13), un progetto nato dopo il trasferimento di Gea Casolaro a Parigi, che ha come scenario le strade della ville lumière e che si basa sulle relazioni tra cinema e realtà quotidiana, tra memoria e senso identitario. Ogni immagine della serie alterna un duplice sguardo sulla città, quello dell’artista e quello di alcuni registi. Così Gea Casolaro si costruisce una propria esperienza dei luoghi cittadini, sulla base della memoria personale ma anche di ricordi non vissuti direttamente, solo interiorizzati attraverso le storie dei personaggi dei film e attraverso la visione dei loro autori.
Questi ed altri lavori sono esposti in sala, tra il primo e il secondo piano del museo. In aggiunta, una selezione numerosa di progetti che ripercorrono l’attività artistica di Gea Casolaro è a disposizione del pubblico nelle cassettiere della biblioteca. Quest’ultima sezione è, dal punto di vista dell’allestimento, la parte migliore della mostra, poiché non contaminata dalla sciatteria che sprigiona dal resto dello spazio. Non mi si fraintenda, il lavoro dell’artista è estremamente interessante, ma il MACRO appare sempre più vecchio e trasandato. Mi sembrava opportuno sottolinearlo, dal momento che una siffatta condizione – ormai più che abituale – condiziona non poco la fruizione di una mostra