LA PROVOCAZIONE (SERIA) BASTA APPELLI LA CULTURA NON VA DIFESA
LA ELOGIAMO, ANCHE SE CI ANNOIA, SOLO PER NON ESSERE CONSIDERATI ROZZI. MA VALE LA PENA?
Il Secolo XIX, Simone Regazzoni -
La cultura è importante, la cultura va difesa, le iniziative culturali delle città sono meritorie. Tanto è vero che a Genova, dopo la mancata approvazione del bilancio del Comune, e la conseguente cancellazione di gran parte delle manifestazioni culturali del 2012, si è acceso il dibattito. Chi oserebbe negare che la cultura è fondamentale? E vero che. in molti casi. la nostra reazione di fronte a questo o quell’evento assomiglia al giudizio estetico che il ragionier Fantozzi esprime nell’indimenticabile, e liberatorio, «è una cagata pazzesca». Ma, a differenza di Fantozzi, noi tendiamo a non manifestare in pubblico il nostro disgusto, tanto più in modo cosi diretto. Non è solo questione di buone maniere. Il gusto, come capacità di apprezzare i beni culturali, è una formidabile armadi classificazione sociale, come ha mostrato Pierre Bourdieu; e siamo ben consapevoli che, mostrando di non avere gusto per un certo bene culturale considerato legittimo, verremmo immediatamente declassati a rozzi e volgari zoticoni che non comprendono il valore della vera cultura proprio come accade ad Alberto Sordi e Anna Longhi in “Vacanze intelligenti”, ripetutamente zittiti durante un concerto di musica contemporanea che non sembrano apprezzare. Preferiamo, così, assecondare il gusto sociale considerato legittimo, come fosse nostro. E in questo ci comportiamo, allora, come Fantozzi quando, parlando del padre del cinema americano Griffith, afferma «io lo adoro, è come fosse mio padre». Siparietti comici buoni per film che indulgono al facile, e pericoloso, populismo anti-intellettuale? Non proprio se, come ha raccontato Massimo Gramellini sulle pagine de La Stampa, in un cineclub di Bologna “per una settimana è stato proiettato L’albero della vita di Malick all’incontrario. Prima il secondo tempo, poi il primo. E alla fine, applausi convinti”. Qual è il significato di quegli applausi? Semplicemente: mostrare che siamo in grado di riconoscere la cultura legittima, al di là della cosa stessa che ci viene mostrata. Sempre meglio elogiare, difendere pubblicamente la cultura e i suoi beni: si guadagnano, senza troppa fatica, quelli che Bourdieu chiamava “titoli di nobiltà culturale”.A patto, naturalmente, di scegliere i beni culturali legittimi: quelli appartenenti alla cosiddetta cultura alta (mostre d’arte, teatro, musica classica, cinema d’autore, letteratura). Ecco il limite dei discorsi in difesa della cultura che da anni sentiamo ripetere come un mantra da parte di intellettuali sopravvissuti alla decadenza diagnostica da Bauman: è sempre di una presunta Cultura con la C maiuscola che si parla, l’unica intesa come legittima. Questa Cultura, per bocca dei suoi guardiani, esige il nostro riconoscimento contro il dilagare di altre forme di cultura che, oggi, la minaccerebbero.
Ora, è proprio a partire da questo limite che occorre cominciare a denunciare i discorsi in difesa della Cultura legittima come forme di resistenza a fronte di una trasformazione radicale dello spazio culturale della democrazia di massa, in cui accanto a una mostra di Warhol può stare, senza complessi di inferiorità culturale, un concerto di Lady Gaga, accanto a Tolstoj una serie tv Americana. Nonostante la loro retorica sempre altisonante, quasi si trattasse di scongiurare la fine imminente della civiltà, i discorsi in difesa della Cultura non hanno nulla di nobile: sono solo il sintomo dell’incapacità di una classe intellettuale di confrontarsi con lo spazio della cultura di massa in cui l’opposizione di cultura alta e bassa si è de-costruita. E indubbio: le resistenze della classe intellettuale di fronte alla cultura di massa, denunciate negli anni Sessanta da Edgar Morin, sono ancora forti. Soprattutto in Italia. Per questo resta attuale il programma lanciato da Morin: “portare lo scompiglio nella classe intellettuale”, “far letteralmente saltare la piazzaforte - il Montségur - da cui siamo abituati a contemplare questi problemi, e ricondurre il dibattito in luogo aperto”.
Si tratta di un’operazione culturale e, al contempo, politica, visto che negli anni del berlusconismo l’intellighenzia di sinistra ha avuto la malaugurata idea di supplire la mancata elaborazione di un progetto politico con una difesa reazionaria della Cultura come feticcio salvifico. Pagando, naturalmente, un prezzo altissimo. Far saltare la piazzaforte della classe intellettuale significa fare i conti fino in fondo con la malattia infantile degli intellettuali italiani: il pasolinismo. Che consiste in una critica reazionaria della democrazia di massa, dei suoi media e della sua cultura. A questo proposito resta esemplare, nella sua vuota retorica apocalittica, la famigerata intervista televisiva di Biagi a Pasolini, in cui un Pasolini in difficoltà affermava che la tv è un medium di massa e un medium di massa non può che mercificarci e alienarci.
Parlando di Pasolini, Edoardo Sanguineti, grande sperimentatore che non ebbe paura di contaminare linguaggi differenti, di presentarsi a Sanremo e di fare pubblicità per i jeans Carrera, affermò: «La poesia sarà magari meno peggio dei romanzi, che saranno meno peggio del cinema. Ma alla fine cosa resta di quest’uomo?». Lo stesso Sanguineti rispose che resta la figura di un intellettuale reazionario, caotico, adolescenziale, immaturo. Un ritratto perfetto per l’intellettuale italiano del XXI secolo. Un ritratto che non si può più contemplare ammirati, ma su cui su occorre intervenire con la stessa creatività dissacrante con cui Duchamp intervenne sul sacro ritratto della Gioconda: aggiunse un paio di baffi, un pizzetto, e la scritta LHOOQ, che significa, letteralmente: “Lei ha caldo al culo”.